sabato 2 giugno 2012


# Mafia e terrorismo: questione di credibilità






Ogni volta che episodi di terrorismo o malavita organizzata entrano nelle cronache si sente riaffermare con decisione che lo Stato agirà con fermezza.
Certo sono state promulgate leggi speciali e le forze dell’ordine operano in modo incessante, con successi e sacrifici, per lottare contro questi due fenomeni.
Ma la fermezza senza credibilità rischia di essere retorica o, peggio, ipocrisia. E la credibilità, a sua volta, si fonda sulla coerenza.
La leadership politica dovrebbe realizzare il collante fra l’ordinamento giuridico e la società.
Ma se osserviamo gli atti istituzionali nei confronti di queste attività criminose, di matrici differenti ma ormai endemicamente radicate nel nostro Paese, l’impressione è diversa. Come se la politica si muovesse con circospezione, in una sottile intercapedine, lo spiraglio che rimane fra lo stipite e l’anta.
Quando si tratta di malavita organizzata, colpisce l'enfasi con cui se ne celebrano le vittime che, sia chiaro, meritano tutto il nostro rispetto. Un’enfasi che va ben aldilà della retorica istituzionale, riservata agli eroi di una guerra a un nemico della Patria. Un formalismo quasi religioso, dettato da un presunto bisogno di riaffermare l’esistenza e la compattezza stessa dello Stato. Ma anche un rituale, dietro cui l‘azione di governo perde i suoi contorni.
Si scoprono lapidi, si intitolano aeroporti e scuole alle vittime di questa presunta guerra. Si mettono i cittadini in prima linea: studenti di “scuole antimafia”, fiaccolate di protesta. Si mettono in campo scrittori e sportivi. Un’antimafia sociale. Mi viene da pensare a quei genitori che alimentano nei figli i sensi di colpa, per legittimare la propria autorità e nascondere i propri limiti.
Un motivo dovrà pur esserci se a 66 anni dalla proclamazione della Repubblica, malgrado prefetti, procure antimafia, nuclei investigativi speciali, sacrifici e successi eclatanti, la malavita organizzata sembra sempre più parte integrante del nostro tessuto economico e sociale. E non stiamo parlando di criminalità ordinaria, confinata negli ambiti dell’illegalità, ma di forze annidate nei meccanismi economici del Paese.
Pensiamo solo al numero di organizzazioni: Mafia, Ndrangheta, Camorra Sacra Corona, per citare i nomi più noti; agli adepti diretti, agli affiliati, ai complici; a coloro che in qualche modo vengono sfiorati dal groviglio delle relative attività! Se accettiamo la teoria dei sei gradi di separazione, chi non ha rapporti con un malavitoso in questo paese? E non può destare meraviglia che non ne sia immune neppure il Vaticano, di cui il nostro Stato è ossequioso portavoce, senza distinzione di schieramento. Ahimè, anche il nostro mentore morale è infettato da dubbie operazioni finanziarie e frequentazioni malavitose.
Viene ugualmente da chiedersi se sia giusto alimentare nella coscienza civile il dubbio di un peccato originale da espiare collettivamente. Il rigetto di una tara innominabile che mina l’integrità del Paese, alla stregua dell’intolleranza razziale e religiosa o di un sentimento antidemocratico.
Non è possibile e sarebbe aberrante!
Perché, se un vizio congenito esiste, non è nella coscienza civile ma nelle radici di questo sistema politico che ha bisogno di specchiarsi nella saldezza morale dei cittadini. Nel retaggio di antichi problemi che hanno spaccato in due l’Italia fin dall’unificazione. Con l’ansia di ricomporre le diverse anime lacerate dal conflitto e dalla guerra civile, la politica ha per lo più governato senza una visione strategica, alla ricerca del consenso e della mediazione. Ed ecco che la corruzione, il compromesso con i poteri forti di varia natura sono stati la linfa che ha alimentato la politica repubblicana. E tra questi poteri non si potevano escludere quelli malavitosi, vista la radicazione nel territorio e nel tessuto sociale di quella parte del paese meno toccato dal benessere industriale. Così, l’azione legittima dello Stato di esigere il rispetto della legge comune si è trasformata in una faida per il controllo del territorio, dai confini ambigui e con vittime inconsapevoli. Ecco allora la necessità di glorificare eroi e vittime, di alimentare il sentimento di una guerra santa, mentre l’ipocrisia rischia di annacquare la fermezza.
La melina di questi giorni in Parlamento sul ddl anti corruzione è illuminante.
E allora, l’effetto vero di questa  terapia di gruppo cui ci sottoponiamo in modo più o meno consapevole, non è di farci apparire un Paese irrimediabilmente compromesso?
Anche altrove hanno la loro malavita organizzata, narcos e “famiglie” di varie etnie, da contrastare. Anche altrove hanno i loro caduti da onorare. Magari diventano soggetto letterario o cinematografico. Ma si tratta pur sempre e solo di lotta dello Stato alla criminalità, non c’è Nazione da compattare o leadership da riaffermare. E non mi pare che si organizzino fiaccolate o partite di calcio dove gli spettatori scandiscono “ chi non salta un gangsta è”.
E alla fine, per tutti i mafiosi per antonomasia siamo solo noi!
Il terrorismo è un aspetto diverso ma altrettanto emblematico.
Qui siamo in effetti di fronte a una guerra contro un nemico dichiarato dello stato e della società e non ci sono dubbi. Più odiosa ancora, perché di guerra civile si tratta.
Ma viene da chiedersi come mai l’Italia sia l’unico Paese democratico in cui persista il fenomeno del terrorismo politico, eversivo. E non stiamo parlando né dell’ETA né dell’IRA che avevano motivazioni storiche e politiche di ben altra rilevanza. Eppure queste organizzazioni sono state contrastate con la spietata durezza che anche un nemico dello Stato democratico merita. La Germania che pure sta ancora facendo i conti col suo passato autoritario, non ha avuto esitazioni né pudori nello sradicare il terrorismo. É possibile che nel nostro tollerante e sonnolento Paese qualcuno pensi che gambizzare un dirigente industriale o uccidere un Professore possa rappresentare una scintilla rivoluzionaria o una risposta politica? È così fragile la nostra democrazia? O magari è solo l’esasperazione di una cultura che fa dei compromessi in cui vive il Paese la sua ragione d’essere?
Va detto con chiarezza che, anche in questo caso, chi lavora sul campo opera e si sacrifica senza esitazioni e con professionalità. Ma è nella saldezza del binomio fermezza-credibilità che sta la chiave del successo. E allora è come se il nostro Stato Repubblicano patisse un po’ la vergogna delle sue radici autoritarie, del lungo percorso nella dittatura. Come se la ferita della guerra civile che, fino alla caduta del muro, si è cercato di ricomporre, nel lungo bipolarismo latente, avesse alimentato una timidezza nella coscienza civile. L’ansia di tenere insieme tutto il gregge, senza distinzioni.
E allora i teorici della rivoluzione possono continuare a pontificare, assassini conclamati pubblicano memorie, terroristi in pensione rilasciano interviste televisive, magari a coloro che ne hanno condiviso le matrici culturali e che ora sono stimatissimi giornalisti e opinionisti.
È con questo spirito che l’allora Ministro di Grazia e Giustizia del governo D’Alema, Oliviero Diliberto - si quello di La Fornero al cimitero- ottenne il rimpatrio della sovversiva Silvia Baraldini. Non una troppo dura ma, tant’è, condannata a 43 anni negli USA e qui accolta con mazzi di fiori e gli arresti domiciliari. Naturalmente ora è libera, grazie all’indulto voluto nel 2006 da un ampio schieramento politico. Anzi, quattro comuni italiani l’hanno omaggiata con la cittadinanza onoraria.
E poi c’è un certo sindacalismo che altrove è stato messo in soffitta da tempo- beh in Orissa ci sono ancora i Maoisti, ma non vuol dire- che qui ha barattato bassi salari e pace sociale per diventare interlocutore privilegiato dei governi. Incapace di qualsiasi contributo culturale utile ad accompagnare la trasformazione industriale del paese, ormai si arrocca su principi non più difendibili, finendo per riproporre uno sterile scontro ottocentesco fra sfruttati e sfruttatori.
Anche gli stranieri che strimpellano per strada e in metropolitana sembrano aver capito: nelle loro playlist non manca mai “Bellaciao”.
Ma chi governa ha la responsabilità di garantire l’integrità della nazione e il rispetto delle leggi che rappresentano i valori condivisi. Senza ambiguità.
Io non condivido la politica di Israele, ma c’è una guerra, giusta o sbagliata che sia, e i nemici che ne minacciano l’esistenza e portano il terrore nelle loro strade li vanno a cercare e li trattano come tali, senza compromessi.
Quando Bush ha dichiarato la guerra totale al terrorismo, noi progressisti lo abbiamo trattato con disprezzo. Ma proprio un progressista, Obama, l’ha portata al successo andando a stanare il ricercato Osama Bin Laden. E non lo ha certo affidato al tribunale dell’Aja! Guantanamo, le renditions, ispirano sentimenti di esecrazione, ma le immagini delle Torri gemelle o anche della scuola di Brindisi che sentimenti suscitano? E che sentimenti ha suscitato in chi la ferita del terrorismo l’ha subita, un Cesare Battisti libero e irridente? Cesare Battisti che si gode la libertà in Brasile, dove scrive libri che, prima  o poi, verranno recensiti a “Che tempo fa” o “Le invasioni barbariche”.
Noi invece mettiamo sotto processo gli agenti dei Servizi che hanno partecipato alla cattura di Abu Omar.
E a proposito di leadership, fermezza e credibilità, quale altro Stato avrebbe permesso che due suoi militari impegnati in una missione internazionale venissero arrestati e giudicati da un’ altra giurisdizione?






  

martedì 10 gennaio 2012

JENNIFER EGAN Una scrittrice da scoprire





È stato di recente pubblicato in Italia l’ultimo libro di Jennifer Egan: Il tempo è un bastardo (Minimum Fax). 
Con questa opera la scrittrice ha vinto il premio Pulitzer 2011 per la narrativa.
Purtroppo poco conosciuta in Italia, dove è stato tradotto finora solo uno dei suoi libri, La figlia dei fiori (Piemme) del 2003, Jennifer Egan è una scrittrice molto interessante, oltre ad essere una giornalista attenta ai temi di rilevanza sociale.
Questo libro colpisce per la struttura narrativa, per il raccontare diretto e partecipe, per l’originalità stilistica: una delle storie che qui si intersecano è strutturata come una presentazione in Power Point.
Ed é forse dalla sua esperienza di giornalista che derivano il taglio e il ritmo di questo romanzo. Storie aggrappate l’una all’altra e incastonate nel flusso del tempo che ne tiene insieme i personaggi. Un caleidoscopio di vite che si possono mescolare e osservare da angoli diversi. Dialoghi asciutti, tagliati sui personaggi, senza intermediazioni. Come un film, scarno, attuale, senza superflue drammatizzazioni.
Il tempo é un bastardo! Una metafora popolare cui allude dubbiosamente uno dei personaggi, suggerisce il titolo italiano.
E anche se il titolo originale è  A visit from the goon squad, "Una visita dei picchiatori", é il tempo che trasporta e lega i personaggi, come una cartilagine.
Ma è davvero un tale bastardo, poi? No, non credo.
Il tempo è solo una delle dimensioni del nostro esistere. È la strada che percorriamo, come palle di neve che rotolano e si ingrossano di esperienze, di ricordi. Ed é così che incrociamo anche il tempo degli altri: a loro lasciamo qualcosa, qualcosa di loro ci rimane attaccato.
Il tempo da senso alla vita. Cosa saremmo senza? Vignette di un fumetto, immagini bidimensionali. Effigi su monete nella tasca di qualcun altro.
A vist from a goon squad...
E in fondo i bastardi, i picchiatori, siamo solo noi con i nostri egoismi, le nostre contraddizioni, la brutalità dei nostri desideri. Specialmente quando irrompiamo nelle vite degli altri, in cerca di tracce di noi stessi.

venerdì 7 ottobre 2011

SPIAGGIATI - CON LUCIEN FREUD....E SIGMUND






L’estate che sembrava sbiadire pigramente ha ripreso vigore. Il sole martella dal cielo limpido. Il litorale e l’acqua bassa brulicano a perdita d’occhio. Dopo il lungo bagno è bello starsene sdraiati. Lasciarsi asciugare lentamente dalla brezza che, per fortuna, soffia leggera e costante dal mare, mitigando la calura. Con gli occhi chiusi mi lascio andare alle percezioni dei sensi. I profumi, il fruscio della risacca. Il pulsare ritmico del basso che fluttua indistinto dagli altoparlanti del bar. Provo a indovinare la canzone, uno dei tormentoni stagionali. Anonimi, presto dimenticati. Non come “un disco per l’estate”che ti portavi dietro anche al ritorno dalle vacanze, con i tuoi 45 giri, insieme alla nostalgia.


C’è un moto incessante di persone, come lo struscio serale su un corso di provincia. Avanti e indietro sulla battigia, senza destinazione apparente, piedi malconci che affondano nella sabbia, dita adunche, alluci valghi. O Crocs dai colori impossibili. Alcuni trascinano con fatica le masserizie, altri ostentano un contegno, da veri amanti della natura. E ancora altri affluiscono dallo stabilimento, come una mandria spinta nel recinto da invisibili bovari.
Per qualche motivo, sembra che ogni nuovo arrivato voglia sistemarsi entro una distanza massima di 50 metri dall’ingresso. Dove sto io.
Cerco di stabilire un minimo spazio vitale da difendere, ma è inutile. C’è già un capofamiglia che sta dando indicazione ai suoi per l’accampamento. Lo guardo con espressione di disappunto che non lo sfiora neppure. Vorrei dirgli che ci sono chilometri di litorale e non è necessario ammassarsi in pochi metri. Lascio perdere, sarebbe vano. È come in metropolitana, a ogni apertura di porte si riversano nel vagone nuovi passeggeri che occupano tutti gli interstizi. Lettini, ombrelloni, enormi ghiacciaie, reticelle rigonfie di giochi per i bambini. Cani.
Questo gruppetto sembra composto ad arte. Lei deve essere stata una donna attraente, o almeno ha cercato di esserlo, prima della cellulite e del cedimento degli addominali. Ostenta lunghi capelli biondo tinto. Troppo lunghi. Li porta alla bella marinara. Ha un’espressione contegnosa che il naso lungo e affilato rende un po’ aspra. Atteggiamento sottolineato dalle unghie troppo lunghe, appuntite e laccate di scuro. Porta molti anelli e ninnoli. Benché sia molto abbronzata, non è una di quelle che stanno sdraiate a prendere il sole metodicamente. Almeno non qui. Anzi, si alza in continuazione. Compie piccole azioni, mansioni all’apparenza inutili, come per mostrare che la gestione del gruppo è nelle sue mani. Lui è decisamente più giovane. Non proprio un toy boy, un incrocio fra James Sawyer di Lost e Mal dei Primitives. Atletico e abbronzato anche se gli addominali sono ben nascosti dall’adipe. Ostenta tatuaggi e capelli annodati alla samurai, naturalmente (a Roma lo chiamerebbero “er cipolla”). E poi c’è il levriero. Bianco, col lungo pelo perfettamente strigliato e pettinato. Muso dall’espressione condiscendente, movimenti affettati. Apparentemente al centro dell’attenzione, mentre il gruppetto improvvisa un set fotografico a beneficio dei torpidi bagnanti. Lo splendido animale deve essere immortalato prima che il sale e la sabbia gli scompiglino l’acconciatura. Sawyer/Mal scatta le foto, muovendosi con piccoli saltelli qua e la per cercare l’inquadratura, l’espressione congelata in un sorriso di ebete compiacimento, evidentemente rivolto alla “padrona”. Questo è il suo ruolo e non è sicuramente lui il “capobranco”, come direbbe Cesar Millan, lo psicologo dei cani. Il quadretto non m’incanta. Penso con irritazione che lo splendido animale, prima o poi, cagherà proprio lì dove i bambini faranno i castelli di sabbia.
“Il cocco è fresco e bello. E le mandorle. Cocco bello cocco fresco cocco” Immancabile, anche se in playback dal megafono, il richiamo del venditore.
Le riviste di gossip sono piene in questo periodo delle foto di splendide ragazze, più o meno note, accompagnate da palestrati calciatori o tronisti.
Ora, questa non è certamente una spiaggia prestigiosa della Sardegna o della Costa Azzurra o dei Caraibi. Non somiglia nemmeno lontanamente al Forte. Per quanto bello, è solo un popolare e popolato lido Pugliese. Certo non il posto dove metterti in mostra, in attesa di una scrittura. Però, è mai possibile che fra le centinaia di persone che brulicano su questo litorale, anche se non in cerca di scritture, non sia possibile vedere un fisico attraente? Non dico muscoli scolpiti, sederini carnosi e sodi, gambe snelle e ben tornite, proporzioni esteticamente stimolanti, ma almeno qualcosa che si avvicini a quell’ideale di bellezza che sembra comunemente condiviso e ormai imposto in modo quasi ossessivo?
Baywatch(particolare)
Deretani e cosce bucherellati dalla cellulite, seni enormi e cascanti, ventri rigonfi, carni flaccide. Fra gli uomini, alcuni più vistosi hanno fisici da lottatori di Sumo, con i pettorali afflosciati, come mantovane pendenti sullo stomaco dilatato. Questo sconfortante mosaico di corpi sembra fatto ad arte per ricordarci le miserie della carne. La Bibbia racconta che Dio decise di fare l’uomo a sua immagine e somiglianza. E poi? Forse per punirlo della sua conseguente presunzione, lo ha racchiuso in questo involucro repellente. Costretto ad anelare perennemente a un ideale di pura bellezza irraggiungibile, simbolo della natura divina. E non è questo che Lucien Freud voleva mostrarci con la bellezza negativa dei suoi ritratti? Con la fisicità debordante di quei corpi segnati dall’esistenza?
E tutte queste coppie. Quando si sono formate erano già così o è intervenuta una mutazione? E la vista, l’uno dell’altra, come la sopportano? O semplicemente non si vedono più?
Ma la pancia, prominente e adiposa è la caratteristica più comune anche nei più giovani, con la pelle che pende flaccida, come un grembiulino sull’elastico del costume.
E d’altra parte, se nell’indolenza del lettino origli le conversazioni dei vicini, prima o poi saltano fuori le parole “pasta al forno”, ”cozze”, ”parmigiana”, delizie da pregustare o ricordi da condividere. Indispensabili ingredienti nella liturgia della vacanza.
Nella banalità ripetitiva dei giornali estivi, mi capita proprio il resoconto di una delle tante ricerche mediche. Dai risultati dello studio emergerebbe che la passione per il cibo è fortemente correlata a una bassa autostima. Ma è davvero possibile che le centinaia di persone sovrappeso che affollano questa spiaggia si sentano delle merde?
Perché invece quel quartetto di ciccioni che emerge a fatica dall’acqua, sembra perfettamente felice. Ora, seduti sulle loro sedie rinforzate, appaiono gioviali e rilassati, mentre conversano, sorridenti e paciosi, pregustando i tesori della ghiacciaia.
Bagneuse

Ben diversi da questo nutrito gruppetto di bolognesi snelli, arrivati come lanzichenecchi. Tronfi dei loro diritti di cittadini che si sono meritati le ferie. Forse desiderosi di imporre una “Rimini way of life”. Mi sono assentato per un bagno e al ritorno si erano installati con metodo, occupando la piccola, residua striscia fra me e la battigia. Creando un’inespugnabile barriera di ombrelli, seggiolini, passeggini-suv, perfino una tenda di Decathlon. Una specie di Fort Apache, impenetrabile alla brezza rinfrescante. Uno dei capifamiglia, non più giovane, ostenta la sua recente paternità emettendo continuamente ridicoli versi, per intrattenere il neonato ma soprattutto per mantenere l’attenzione sul suo gruppo di felici pionieri della natura e dell’umanità. Forse con qualche tortellino e qualche chilo in più, anche loro avrebbero un atteggiamento più rilassato e sopratutto meno arrogante.


“Il cocco è fresco e bello. E le mandorle. Cocco bello cocco fresco cocco
Ma che fate?!

venerdì 29 luglio 2011

MANOVRA (FINANZIARIA)

In generale, il processo attraverso il quale i governi programmano di anno in anno la gestione finanziaria del loro Paese, viene denominato Budget. Perfino in Francia, dove il computer è detto “ordinateur”, probabilmente perché la parola ha una lontana origine francese. Normalmente il budget è poi tradotto in un’apposita legge finanziaria soggetta all’approvazione del rispettivo parlamento e poi vincolante. Negli USA, il processo è ancora più stringente perché non basta l’approvazione del budget ad autorizzare un eventuale incremento del debito pubblico. Questo è limitato a un tetto fissato dal congresso e come leggiamo in questi giorni, non è scontato che possa essere modificato, vincolando la discrezionalità dell’esecutivo.
Non è necessario essere degli addetti ai lavori per comprendere il significato di questa parola, soprattutto se si è fra coloro che devono stare attenti alle spese se vogliono arrivare alla fine del mese. Perché è di questo che in fondo si tratta. Elaborare il Budget di una famiglia, ma anche di un’azienda o di uno stato, vuol dire fare il conto delle entrate previste e su di esso programmare le spese. Certo ci possono essere degli imprevisti o magari dei desideri difficili da soffocare. In quel caso, avendone la possibilità, si può far ricorso alle carte di credito, ai prestiti personali, ai mutui. Ma anche in quel caso, la successiva programmazione dovrà tener conto degli interessi e delle rate di rimborso dei debiti.
Ma se non siamo stati oculati a sufficienza o non così determinati nel contenere le spese voluttuarie? Beh, in quel caso dovremo ricorrere a qualche escamotage, del tipo impegnare i gioielli della moglie, mettere in conto la spesa al fruttivendolo, emettere assegni postdatati. Se siamo imprenditori, non pagare i fornitori, non versare l’IVA e i contributi, cose del genere. Però si può ancora scendere la scala dell’etica, secondo la propria spregiudicatezza e la relativa disperazione.
In Italia, in linea con la cultura dominante e con la storia politica del Paese, il budget è indicato come “ Manovra finanziaria”. Non a caso, perché la parola “manovra” esprime il significato di un atto tattico volto a un obiettivo definito, della reazione a una contingenza, se non peggio, di furbesche azioni per ottenere uno scopo.
E, a ben vedere, di questo si tratta. Fatta la previsione delle entrate non si fa alcuno sforzo per contenere le spese o per aumentare in modo fisiologico le entrate stesse, stimolando opportunamente l’economia privata o impiegando i fondi pubblici a fini produttivi. Anzi, nell’affanno delle prevedibili emergenze si utilizza il trito repertorio del tappabuchi. Esattamente quello che nel privato fanno cittadini e imprenditori poco oculati o poco onesti. Con il vantaggio che non ci saranno né denunce né istanze di fallimento, anzi vessazioni fiscali imposte con la protervia e la coercizione.
E allora quello che deve fare riflettere, aldilà delle conseguenze economiche di questa e delle altre “manovre”, è proprio il senso di improvvisazione che la sottende, la limitatezza dell’orizzonte delle scelte di politica economica. E non è certo una caratteristica di questo governo. La storia economica del dopoguerra è segnata da questa incapacità di dare un indirizzo, di esprimere una visione tale da accompagnare l’evoluzione e i mutamenti della società e dell’economia, dare delle risposte strutturali. Dal boom economico, innescato da un liberalismo miope e soffocato con altrettanta faciloneria per finalità politiche contingenti, l’intervento dello stato, anche attraverso il capitalismo pubblico, non ha perseguito una linea strategica, ma il consenso populista. Così il Paese, stretto in un impossibile bipolarismo, ha preferito tirare avanti sulle linee di un mai morto corporativismo che ha accontentato tutti. E i nodi sono tutti rimasti li, la carenza dei servizi e delle infrastrutture, la politica agricola, lo sviluppo del meridione, il mercato del lavoro. In compenso abbiamo avuto le pensioni baby, quelle d’oro e quelle anticipate, gli ammortizzatori sociali, i contratti di programma e i posti di lavoro dove non c’è il lavoro, il servizio sanitario nazionale. Il tutto tenuto insieme da una corruzione dilagante e inestirpabile.
É forse per questo che oggi, malgrado la situazione sempre più grave e sempre più nebulosa, a parte qualche sciopero dei trasporti, gli unici che fanno sentire le loro proteste sono i No TAV? C’è di che riflettere.
Ma allora, per avere una classe politica capace di una visione di lungo periodo, di dare risposte adeguate ai problemi di una società in rapida evoluzione, di affrontare le sfide dell’economia globalizzata, cosa dovremo aspettare? Forse che tutti coloro che hanno accettato il precariato con la promessa di un posto fisso aprano gli occhi? Che coloro che vivono dei privilegi garantiti da politiche miopi spariscano dal mercato? Che i giovani che sperano in un lavoro rinuncino a sperare?
E sarebbe bene ricordare uno dei tanti capitoli della nostra grottesca storia economica: lo SME. L’entrata nello SME fu, come al solito, una scelta politica non accompagnata da un coerente sistema di riforme. Il risultato è noto. Dopo aver vissuto al di sopra dei nostri mezzi, malgrado le generose bande di oscillazione concesse a Lira e Peseta (!) nel 1992 si dovette pesantemente svalutare (e anche riguardare gli organigrammi dell’epoca non farebbe male).
Ma lo SME era anche la prova generale per la moneta unica. Anche in questo caso, giustamente, abbiamo aderito, accettando un rapporto di cambio discutibile e senza di nuovo fare nulla per consentire alla nostra economia di tenere il passo. Senza la valvola di sfogo delle svalutazioni, le inefficienze si sono scaricate sul mercato interno, come abbiamo sperimentato sulla nostra pelle.
Andando in vacanza in Grecia si sentiva spesso dire ”Greci, Italiani, una faccia stessa razza”…..

mercoledì 6 luglio 2011

LIBERTÀ


Con il suo nuovo libro, Jonathan Franzen cerca di metterci in guardia dai pericoli della Libertà. Anzi, delle libertà. Libertà - da e libertà-di che non sono la stessa cosa.
Esercitare le proprie libertà crea disagi. Perché la libertà non è un concetto assoluto. Definirlo significa comprenderne i confini. Esercitare le proprie libertà può provocare disastri, nelle relazioni sociali e professionali, fra coniugi o amanti, nei rapporti con i figli. All’estremo, può costringerti all’esilio nell’alcol, doloroso quanto banale.
Per come ce le racconta Franzen, queste libertà appaiono piuttosto come categorie mentali e di comportamento, con finalità per lo più di auto esaltazione e auto giustificazione. Fino al punto che, per dar corpo a una sua ossessione di sottofondo, l’esercizio spregiudicato delle libertà diventa il connotato fondamentale dell’elettore Repubblicano, a ogni livello.
I conflitti, però, nascono altrove, dalla incapacità di accettare prima se stessi, poi gli altri, evitando di far pesare la qualità dei propri sentimenti. È questo che i personaggi di Franzen non riescono a fare, chiudendosi nella depressione e nelle nevrosi. Forse l’unico che può farlo è il controverso musicista, Katz (il “gatto” non a caso), capace di accettare il proprio egoismo, anche se gli preclude molte delle cose cui aspirerebbe. E allora, lunga vita al rock!
Libertà(..) inonda di luce nuova il mondo che crediamo di conoscere” recita il commento esaltato del The New York Times Book Revue. Ma se veramente lo fa, è di una luce opaca, malata.
Ben altra luce emana dai personaggi attraverso cui Philip Roth ci mostra le contraddizioni in cui viviamo. Personaggi ugualmente nevrotici e paradossali ma scolpiti con il senso del grottesco che in Franzen è totalmente assente.
Per sostenere la sua deprecazione delle libertà personali, Franzen tira in ballo la nostra metà del mondo, con un pizzico di rimpianto. “Il motivo per cui in Europa il libero mercato è temperato dal socialismo è che laggiù non sono così attaccati alle libertà personali”. Analisi condivisibile.
Certo, dopo aver lottato per scrollarci le dittature, una limitazione delle libertà personali ci è sembrata una conquista culturale. Allora, a seconda delle circostanze, la esibiamo con contegnosità un po’ biliosa o la accettiamo, come un giusto compromesso morale.
Ma guardiamoci intorno. Se alla parola libertà sostituiamo opportunità, i conti per il nostro Paese tornano ugualmente?
Perché, a ben vedere, intorpiditi da secoli di paternalismo laico e cattolico, noi abbiamo barattato le nostre opportunità per un welfare egoista. Non contenti, stiamo anche derubando le generazioni future.
Non è proprio questo che chiedono le popolazioni nordafricane e mediorientali in rivolta? Le loro opportunità, negate da regimi corrotti o vendute ingenuamente insieme al petrolio.
E noi a guardare, con compiaciuta condiscendenza e con qualche turbamento, mentre celebriamo la nostra storia che ancora stiamo scrivendo.
E se invece di festeggiare il Risorgimento come fosse la sagra delle ciliegie o il miracolo di San Gennaro, ce lo riprendessimo? Se cercassimo di capire dove il filo si è spezzato e provassimo a riannodarlo?

lunedì 20 giugno 2011

Lourdes

Fincantieri, un altro dei grandi problemi strutturali del nostro sistema economico.
Il piano industriale reso noto dall’amministratore delegato attraverso un’intervista, come un sasso nello stagno.
Immediata levata di scudi di fronte ai previsti tagli e ridimensionamenti. L’attenzione dei politici finalmente mobilitata, come si voleva. Lo scenario è molto complesso. Mercato internazionale della cantieristica in caduta libera, concorrenza molto agguerrita, previsioni tutt’altro che incoraggianti. Inoltre, in Liguria, la crisi di Fincantieri si apre come una piaga sul tessuto problematico dei piani di riqualificazione delle aree. Per cosa? Per chi?
Ribaltamento a mare è la definizione tecnica del progetto. Nome bizzarro e quasi giocoso per nascondere un verminaio. Interventi dello stato e della Regione, naturalmente. Ma anche beghe corporative, tipo i dettaglianti contro i centri commerciali. A questo si aggiunga la rigidità del mercato del lavoro e la scarsa attitudine dei lavoratori a scendere a compromessi magari in attesa di ammortizzatori sociali ad hoc che, prima o poi, arriveranno. Di fronte alle ovvie proteste qualcosa si muove: finanziamenti pubblici, contratti di programma, commesse per due nuove Fregate (il destino nel nome..), erogazione di aiuti comunitari.
Una vicenda estremamente complessa e articolata che bisognerebbe esplorare nei dettagli per poter esprimere giudizi. Ma detta così, certamente capace di suscitare emozioni. L’ideale per una performance di Santoro.
È ovvio che per i lavoratori coinvolti e che rischiano il lavoro bisogna avere il massimo rispetto. In questa, come in tante altre situazioni. È altrettanto chiaro che, considerate la situazione e le prospettive del settore, ci avviamo a mantenere in vita, a carico della comunità, un organismo aziendale che da solo non avrebbe la forza di sopravvivere, se non dopo un’energica e impensabile ristrutturazione. E allora sempre di più questo paese vive di assistenzialismo, un circolo vizioso che non alimenta alcuna crescita e distrugge valore.
A parte le utilities, che ovviamente possono fare il bello e il cattivo tempo, sembra che ormai non ci sia attività economica che possa sopravvivere senza incentivi, contributi, ammortizzatori. Dall’agricoltura all’auto, al latte, al cinema. Dopo vent’anni di corporativismo fascista ci siamo appisolati nell’abbraccio mortale del paternalismo cattolico democristiano e di quello laico della sinistra intellettuale e pseudo-operaista.
La parola concorrenza non compare ormai più nel vocabolario economico italiano.
Finiti gli incentivi, finiti i contratti di programma e le leggi protezionistiche, chi deve confrontarsi con i mercati internazionali delocalizza, anche se il quartier generale lo lascia qui. Insieme ai precari, categoria sociale figlia di quell’abbraccio, cui qualcuno ha offerto lavori inesistenti, facendo promesse che non poteva fare. E noi, abituati ad avere una mano benevola che prende da una tasca e la mette nell’altra, tiriamo avanti facendo finta di nulla. Eterni gattopardi. Siamo ancora il paese del socialismo reale, anche se la storia nel frattempo sta andando avanti a ritmo frenetico. Per noi il muro di Berlino non è mai caduto. E allora, facciamo finta di non vedere quello che succede nel mondo. In Cina, che comincia a perdere competitività, perché i loro salari di 140$ si confrontano con i 40$ del Bangladesh. O in Germania, che ricominciò sulle stesse nostre macerie e con un governo democristiano. Però forse una “terza via” tutta nostra ci potrebbe essere. L’ha adombrata il DS della Ferrari in crisi di vittorie. Icona dell’eccellenza italica, osannata e incensata dallo sciovinismo nostrano, quando vinceva. Trascurando che il progettista era Inglese, il pilota tedesco, il DS Francese.
Beh l’idea sarebbe di fare un pellegrinaggio a Lourdes, e perché no. E non traspare anche in questa idea il segno del declino? Non eravamo proprio noi, fra le altre cose, un popolo di Santi?

martedì 31 maggio 2011

Buongiorno Milano

Così Giuliano Pisapia ha vinto, è il nostro nuovo Sindaco.
Hanno tutti lottato per dare a queste elezioni il valore e il significato di un plebiscito politico. Ma la sostanza rimane, deve rimanere: ha preso corpo la volontà dei Milanesi di un cambiamento radicale della loro amministrazione locale. Anche se dietro il garbato vincitore si sono subito agitati i vari Vendola, Di Pietro, Bersani, c’é da sperare che il Sindaco in carica, prima che essere il portatore d'acqua dei giochi della politica nazionale, abbia in mente la sua missione prioritaria: essere il sindaco dei Milanesi. Ridare un’anima, un’identità a questa città, una delle più importanti d’Europa. 1,3 milioni di abitanti ogni giorno travolti, al limite del sostenibile, da un flusso di persone che a vario titolo ci si accalcano, per poi fare ritorno alle loro destinazioni di origine, ove i loro Sindaci pensano alle loro esigenze. Una città usa e getta, la nostra! L'affarismo più impersonale, ha fatto si che non solo eventi di portata internazionale ma tutte le attività significative di questa importante Regione si concentrassero in un kilometro quadrato. Attività per lo più gestite con caotica ingordigia, nel più assoluto disprezzo delle esigenze dei cittadini. Pensate solo per attirare business, non necessariamente a beneficio dei Milanesi o più semplicemente per tenere accese le luci della ribalta. É più importante aprire un nuovo chiringuito o piazzare trucide bancarelle in pieno centro che tentare di gestire il traffico quotidiano. E non può bastare buttare lì frettolosamente qualche kilometro di piste ciclabili, ovviamente senza inserirle in un piano urbanistico. Non è bastato.
E non voglio certo mancare di rispetto ai pendolari che ogni giorno devono affluire faticosamente nella nostra città, per lavoro e per svago, insieme ai quali paghiamo il prezzo dell’inquinamento, del disagio, dell’alto costo e della bassa qualità della vita. I pendolari però poi se ne tornano nelle loro ben più vivibili cittadine. Un esempio a tal proposito. Era proprio necessario costruire il nuovo”Pirellone”? E se sì, non poteva essere collocato fuori della città, visto che ospita il governo della Regione, agevolando l’afflusso degli impiegati e decongestionando un po’il traffico cittadino? Per tacere di quello sfoggio di tacchi a spillo architettonici che lo circondano, per cosa? Per chi?
Buongiorno Milano, dicono oggi i manifesti orangisti.
Speriamo che sia un nuovo giorno. “Abbiamo espugnato Milano”, vedremo, ma nel caso sono stati i Milanesi e a loro si dovrà rendere conto. La retorica non ci serve. Leggiamo che uno dei Suoi primi atti è stato l’omaggio a un partigiano, decorato. Giusto non dimenticare i valori ideali.Ora però faccia Lei il partigiano, dei Milanesi che l’hanno votata, non dei giochi poco fantasiosi degli sponsors Romani.
In questa amministrazione siederanno molte persone garbate e educate, perché allora non cominciare dalle cose semplici e basilari, come (re)instillare il senso civico, annichilito dall’affarismo becero? Magari come si faceva a scuola, se necessario, con un po’ di bacchettate sulle dita.
Buon lavoro.