Fincantieri, un altro dei grandi problemi strutturali del nostro sistema economico.
Il piano industriale reso noto dall’amministratore delegato attraverso un’intervista, come un sasso nello stagno.
Immediata levata di scudi di fronte ai previsti tagli e ridimensionamenti. L’attenzione dei politici finalmente mobilitata, come si voleva. Lo scenario è molto complesso. Mercato internazionale della cantieristica in caduta libera, concorrenza molto agguerrita, previsioni tutt’altro che incoraggianti. Inoltre, in Liguria, la crisi di Fincantieri si apre come una piaga sul tessuto problematico dei piani di riqualificazione delle aree. Per cosa? Per chi?
Ribaltamento a mare è la definizione tecnica del progetto. Nome bizzarro e quasi giocoso per nascondere un verminaio. Interventi dello stato e della Regione, naturalmente. Ma anche beghe corporative, tipo i dettaglianti contro i centri commerciali. A questo si aggiunga la rigidità del mercato del lavoro e la scarsa attitudine dei lavoratori a scendere a compromessi magari in attesa di ammortizzatori sociali ad hoc che, prima o poi, arriveranno. Di fronte alle ovvie proteste qualcosa si muove: finanziamenti pubblici, contratti di programma, commesse per due nuove Fregate (il destino nel nome..), erogazione di aiuti comunitari.
Una vicenda estremamente complessa e articolata che bisognerebbe esplorare nei dettagli per poter esprimere giudizi. Ma detta così, certamente capace di suscitare emozioni. L’ideale per una performance di Santoro.
È ovvio che per i lavoratori coinvolti e che rischiano il lavoro bisogna avere il massimo rispetto. In questa, come in tante altre situazioni. È altrettanto chiaro che, considerate la situazione e le prospettive del settore, ci avviamo a mantenere in vita, a carico della comunità, un organismo aziendale che da solo non avrebbe la forza di sopravvivere, se non dopo un’energica e impensabile ristrutturazione. E allora sempre di più questo paese vive di assistenzialismo, un circolo vizioso che non alimenta alcuna crescita e distrugge valore.
A parte le utilities, che ovviamente possono fare il bello e il cattivo tempo, sembra che ormai non ci sia attività economica che possa sopravvivere senza incentivi, contributi, ammortizzatori. Dall’agricoltura all’auto, al latte, al cinema. Dopo vent’anni di corporativismo fascista ci siamo appisolati nell’abbraccio mortale del paternalismo cattolico democristiano e di quello laico della sinistra intellettuale e pseudo-operaista.
La parola concorrenza non compare ormai più nel vocabolario economico italiano.
Finiti gli incentivi, finiti i contratti di programma e le leggi protezionistiche, chi deve confrontarsi con i mercati internazionali delocalizza, anche se il quartier generale lo lascia qui. Insieme ai precari, categoria sociale figlia di quell’abbraccio, cui qualcuno ha offerto lavori inesistenti, facendo promesse che non poteva fare. E noi, abituati ad avere una mano benevola che prende da una tasca e la mette nell’altra, tiriamo avanti facendo finta di nulla. Eterni gattopardi. Siamo ancora il paese del socialismo reale, anche se la storia nel frattempo sta andando avanti a ritmo frenetico. Per noi il muro di Berlino non è mai caduto. E allora, facciamo finta di non vedere quello che succede nel mondo. In Cina, che comincia a perdere competitività, perché i loro salari di 140$ si confrontano con i 40$ del Bangladesh. O in Germania, che ricominciò sulle stesse nostre macerie e con un governo democristiano. Però forse una “terza via” tutta nostra ci potrebbe essere. L’ha adombrata il DS della Ferrari in crisi di vittorie. Icona dell’eccellenza italica, osannata e incensata dallo sciovinismo nostrano, quando vinceva. Trascurando che il progettista era Inglese, il pilota tedesco, il DS Francese.
Beh l’idea sarebbe di fare un pellegrinaggio a Lourdes, e perché no. E non traspare anche in questa idea il segno del declino? Non eravamo proprio noi, fra le altre cose, un popolo di Santi?
Nessun commento:
Posta un commento