sabato 2 giugno 2012


# Mafia e terrorismo: questione di credibilità






Ogni volta che episodi di terrorismo o malavita organizzata entrano nelle cronache si sente riaffermare con decisione che lo Stato agirà con fermezza.
Certo sono state promulgate leggi speciali e le forze dell’ordine operano in modo incessante, con successi e sacrifici, per lottare contro questi due fenomeni.
Ma la fermezza senza credibilità rischia di essere retorica o, peggio, ipocrisia. E la credibilità, a sua volta, si fonda sulla coerenza.
La leadership politica dovrebbe realizzare il collante fra l’ordinamento giuridico e la società.
Ma se osserviamo gli atti istituzionali nei confronti di queste attività criminose, di matrici differenti ma ormai endemicamente radicate nel nostro Paese, l’impressione è diversa. Come se la politica si muovesse con circospezione, in una sottile intercapedine, lo spiraglio che rimane fra lo stipite e l’anta.
Quando si tratta di malavita organizzata, colpisce l'enfasi con cui se ne celebrano le vittime che, sia chiaro, meritano tutto il nostro rispetto. Un’enfasi che va ben aldilà della retorica istituzionale, riservata agli eroi di una guerra a un nemico della Patria. Un formalismo quasi religioso, dettato da un presunto bisogno di riaffermare l’esistenza e la compattezza stessa dello Stato. Ma anche un rituale, dietro cui l‘azione di governo perde i suoi contorni.
Si scoprono lapidi, si intitolano aeroporti e scuole alle vittime di questa presunta guerra. Si mettono i cittadini in prima linea: studenti di “scuole antimafia”, fiaccolate di protesta. Si mettono in campo scrittori e sportivi. Un’antimafia sociale. Mi viene da pensare a quei genitori che alimentano nei figli i sensi di colpa, per legittimare la propria autorità e nascondere i propri limiti.
Un motivo dovrà pur esserci se a 66 anni dalla proclamazione della Repubblica, malgrado prefetti, procure antimafia, nuclei investigativi speciali, sacrifici e successi eclatanti, la malavita organizzata sembra sempre più parte integrante del nostro tessuto economico e sociale. E non stiamo parlando di criminalità ordinaria, confinata negli ambiti dell’illegalità, ma di forze annidate nei meccanismi economici del Paese.
Pensiamo solo al numero di organizzazioni: Mafia, Ndrangheta, Camorra Sacra Corona, per citare i nomi più noti; agli adepti diretti, agli affiliati, ai complici; a coloro che in qualche modo vengono sfiorati dal groviglio delle relative attività! Se accettiamo la teoria dei sei gradi di separazione, chi non ha rapporti con un malavitoso in questo paese? E non può destare meraviglia che non ne sia immune neppure il Vaticano, di cui il nostro Stato è ossequioso portavoce, senza distinzione di schieramento. Ahimè, anche il nostro mentore morale è infettato da dubbie operazioni finanziarie e frequentazioni malavitose.
Viene ugualmente da chiedersi se sia giusto alimentare nella coscienza civile il dubbio di un peccato originale da espiare collettivamente. Il rigetto di una tara innominabile che mina l’integrità del Paese, alla stregua dell’intolleranza razziale e religiosa o di un sentimento antidemocratico.
Non è possibile e sarebbe aberrante!
Perché, se un vizio congenito esiste, non è nella coscienza civile ma nelle radici di questo sistema politico che ha bisogno di specchiarsi nella saldezza morale dei cittadini. Nel retaggio di antichi problemi che hanno spaccato in due l’Italia fin dall’unificazione. Con l’ansia di ricomporre le diverse anime lacerate dal conflitto e dalla guerra civile, la politica ha per lo più governato senza una visione strategica, alla ricerca del consenso e della mediazione. Ed ecco che la corruzione, il compromesso con i poteri forti di varia natura sono stati la linfa che ha alimentato la politica repubblicana. E tra questi poteri non si potevano escludere quelli malavitosi, vista la radicazione nel territorio e nel tessuto sociale di quella parte del paese meno toccato dal benessere industriale. Così, l’azione legittima dello Stato di esigere il rispetto della legge comune si è trasformata in una faida per il controllo del territorio, dai confini ambigui e con vittime inconsapevoli. Ecco allora la necessità di glorificare eroi e vittime, di alimentare il sentimento di una guerra santa, mentre l’ipocrisia rischia di annacquare la fermezza.
La melina di questi giorni in Parlamento sul ddl anti corruzione è illuminante.
E allora, l’effetto vero di questa  terapia di gruppo cui ci sottoponiamo in modo più o meno consapevole, non è di farci apparire un Paese irrimediabilmente compromesso?
Anche altrove hanno la loro malavita organizzata, narcos e “famiglie” di varie etnie, da contrastare. Anche altrove hanno i loro caduti da onorare. Magari diventano soggetto letterario o cinematografico. Ma si tratta pur sempre e solo di lotta dello Stato alla criminalità, non c’è Nazione da compattare o leadership da riaffermare. E non mi pare che si organizzino fiaccolate o partite di calcio dove gli spettatori scandiscono “ chi non salta un gangsta è”.
E alla fine, per tutti i mafiosi per antonomasia siamo solo noi!
Il terrorismo è un aspetto diverso ma altrettanto emblematico.
Qui siamo in effetti di fronte a una guerra contro un nemico dichiarato dello stato e della società e non ci sono dubbi. Più odiosa ancora, perché di guerra civile si tratta.
Ma viene da chiedersi come mai l’Italia sia l’unico Paese democratico in cui persista il fenomeno del terrorismo politico, eversivo. E non stiamo parlando né dell’ETA né dell’IRA che avevano motivazioni storiche e politiche di ben altra rilevanza. Eppure queste organizzazioni sono state contrastate con la spietata durezza che anche un nemico dello Stato democratico merita. La Germania che pure sta ancora facendo i conti col suo passato autoritario, non ha avuto esitazioni né pudori nello sradicare il terrorismo. É possibile che nel nostro tollerante e sonnolento Paese qualcuno pensi che gambizzare un dirigente industriale o uccidere un Professore possa rappresentare una scintilla rivoluzionaria o una risposta politica? È così fragile la nostra democrazia? O magari è solo l’esasperazione di una cultura che fa dei compromessi in cui vive il Paese la sua ragione d’essere?
Va detto con chiarezza che, anche in questo caso, chi lavora sul campo opera e si sacrifica senza esitazioni e con professionalità. Ma è nella saldezza del binomio fermezza-credibilità che sta la chiave del successo. E allora è come se il nostro Stato Repubblicano patisse un po’ la vergogna delle sue radici autoritarie, del lungo percorso nella dittatura. Come se la ferita della guerra civile che, fino alla caduta del muro, si è cercato di ricomporre, nel lungo bipolarismo latente, avesse alimentato una timidezza nella coscienza civile. L’ansia di tenere insieme tutto il gregge, senza distinzioni.
E allora i teorici della rivoluzione possono continuare a pontificare, assassini conclamati pubblicano memorie, terroristi in pensione rilasciano interviste televisive, magari a coloro che ne hanno condiviso le matrici culturali e che ora sono stimatissimi giornalisti e opinionisti.
È con questo spirito che l’allora Ministro di Grazia e Giustizia del governo D’Alema, Oliviero Diliberto - si quello di La Fornero al cimitero- ottenne il rimpatrio della sovversiva Silvia Baraldini. Non una troppo dura ma, tant’è, condannata a 43 anni negli USA e qui accolta con mazzi di fiori e gli arresti domiciliari. Naturalmente ora è libera, grazie all’indulto voluto nel 2006 da un ampio schieramento politico. Anzi, quattro comuni italiani l’hanno omaggiata con la cittadinanza onoraria.
E poi c’è un certo sindacalismo che altrove è stato messo in soffitta da tempo- beh in Orissa ci sono ancora i Maoisti, ma non vuol dire- che qui ha barattato bassi salari e pace sociale per diventare interlocutore privilegiato dei governi. Incapace di qualsiasi contributo culturale utile ad accompagnare la trasformazione industriale del paese, ormai si arrocca su principi non più difendibili, finendo per riproporre uno sterile scontro ottocentesco fra sfruttati e sfruttatori.
Anche gli stranieri che strimpellano per strada e in metropolitana sembrano aver capito: nelle loro playlist non manca mai “Bellaciao”.
Ma chi governa ha la responsabilità di garantire l’integrità della nazione e il rispetto delle leggi che rappresentano i valori condivisi. Senza ambiguità.
Io non condivido la politica di Israele, ma c’è una guerra, giusta o sbagliata che sia, e i nemici che ne minacciano l’esistenza e portano il terrore nelle loro strade li vanno a cercare e li trattano come tali, senza compromessi.
Quando Bush ha dichiarato la guerra totale al terrorismo, noi progressisti lo abbiamo trattato con disprezzo. Ma proprio un progressista, Obama, l’ha portata al successo andando a stanare il ricercato Osama Bin Laden. E non lo ha certo affidato al tribunale dell’Aja! Guantanamo, le renditions, ispirano sentimenti di esecrazione, ma le immagini delle Torri gemelle o anche della scuola di Brindisi che sentimenti suscitano? E che sentimenti ha suscitato in chi la ferita del terrorismo l’ha subita, un Cesare Battisti libero e irridente? Cesare Battisti che si gode la libertà in Brasile, dove scrive libri che, prima  o poi, verranno recensiti a “Che tempo fa” o “Le invasioni barbariche”.
Noi invece mettiamo sotto processo gli agenti dei Servizi che hanno partecipato alla cattura di Abu Omar.
E a proposito di leadership, fermezza e credibilità, quale altro Stato avrebbe permesso che due suoi militari impegnati in una missione internazionale venissero arrestati e giudicati da un’ altra giurisdizione?






  

martedì 10 gennaio 2012

JENNIFER EGAN Una scrittrice da scoprire





È stato di recente pubblicato in Italia l’ultimo libro di Jennifer Egan: Il tempo è un bastardo (Minimum Fax). 
Con questa opera la scrittrice ha vinto il premio Pulitzer 2011 per la narrativa.
Purtroppo poco conosciuta in Italia, dove è stato tradotto finora solo uno dei suoi libri, La figlia dei fiori (Piemme) del 2003, Jennifer Egan è una scrittrice molto interessante, oltre ad essere una giornalista attenta ai temi di rilevanza sociale.
Questo libro colpisce per la struttura narrativa, per il raccontare diretto e partecipe, per l’originalità stilistica: una delle storie che qui si intersecano è strutturata come una presentazione in Power Point.
Ed é forse dalla sua esperienza di giornalista che derivano il taglio e il ritmo di questo romanzo. Storie aggrappate l’una all’altra e incastonate nel flusso del tempo che ne tiene insieme i personaggi. Un caleidoscopio di vite che si possono mescolare e osservare da angoli diversi. Dialoghi asciutti, tagliati sui personaggi, senza intermediazioni. Come un film, scarno, attuale, senza superflue drammatizzazioni.
Il tempo é un bastardo! Una metafora popolare cui allude dubbiosamente uno dei personaggi, suggerisce il titolo italiano.
E anche se il titolo originale è  A visit from the goon squad, "Una visita dei picchiatori", é il tempo che trasporta e lega i personaggi, come una cartilagine.
Ma è davvero un tale bastardo, poi? No, non credo.
Il tempo è solo una delle dimensioni del nostro esistere. È la strada che percorriamo, come palle di neve che rotolano e si ingrossano di esperienze, di ricordi. Ed é così che incrociamo anche il tempo degli altri: a loro lasciamo qualcosa, qualcosa di loro ci rimane attaccato.
Il tempo da senso alla vita. Cosa saremmo senza? Vignette di un fumetto, immagini bidimensionali. Effigi su monete nella tasca di qualcun altro.
A vist from a goon squad...
E in fondo i bastardi, i picchiatori, siamo solo noi con i nostri egoismi, le nostre contraddizioni, la brutalità dei nostri desideri. Specialmente quando irrompiamo nelle vite degli altri, in cerca di tracce di noi stessi.