Con il suo nuovo libro, Jonathan Franzen cerca di metterci in guardia dai pericoli della Libertà. Anzi, delle libertà. Libertà - da e libertà-di che non sono la stessa cosa.
Esercitare le proprie libertà crea disagi. Perché la libertà non è un concetto assoluto. Definirlo significa comprenderne i confini. Esercitare le proprie libertà può provocare disastri, nelle relazioni sociali e professionali, fra coniugi o amanti, nei rapporti con i figli. All’estremo, può costringerti all’esilio nell’alcol, doloroso quanto banale.
Per come ce le racconta Franzen, queste libertà appaiono piuttosto come categorie mentali e di comportamento, con finalità per lo più di auto esaltazione e auto giustificazione. Fino al punto che, per dar corpo a una sua ossessione di sottofondo, l’esercizio spregiudicato delle libertà diventa il connotato fondamentale dell’elettore Repubblicano, a ogni livello.
I conflitti, però, nascono altrove, dalla incapacità di accettare prima se stessi, poi gli altri, evitando di far pesare la qualità dei propri sentimenti. È questo che i personaggi di Franzen non riescono a fare, chiudendosi nella depressione e nelle nevrosi. Forse l’unico che può farlo è il controverso musicista, Katz (il “gatto” non a caso), capace di accettare il proprio egoismo, anche se gli preclude molte delle cose cui aspirerebbe. E allora, lunga vita al rock!
“Libertà(..) inonda di luce nuova il mondo che crediamo di conoscere” recita il commento esaltato del The New York Times Book Revue. Ma se veramente lo fa, è di una luce opaca, malata.
Ben altra luce emana dai personaggi attraverso cui Philip Roth ci mostra le contraddizioni in cui viviamo. Personaggi ugualmente nevrotici e paradossali ma scolpiti con il senso del grottesco che in Franzen è totalmente assente.
Per sostenere la sua deprecazione delle libertà personali, Franzen tira in ballo la nostra metà del mondo, con un pizzico di rimpianto. “Il motivo per cui in Europa il libero mercato è temperato dal socialismo è che laggiù non sono così attaccati alle libertà personali”. Analisi condivisibile.
Certo, dopo aver lottato per scrollarci le dittature, una limitazione delle libertà personali ci è sembrata una conquista culturale. Allora, a seconda delle circostanze, la esibiamo con contegnosità un po’ biliosa o la accettiamo, come un giusto compromesso morale.
Ma guardiamoci intorno. Se alla parola libertà sostituiamo opportunità, i conti per il nostro Paese tornano ugualmente?
Perché, a ben vedere, intorpiditi da secoli di paternalismo laico e cattolico, noi abbiamo barattato le nostre opportunità per un welfare egoista. Non contenti, stiamo anche derubando le generazioni future.
Non è proprio questo che chiedono le popolazioni nordafricane e mediorientali in rivolta? Le loro opportunità, negate da regimi corrotti o vendute ingenuamente insieme al petrolio.
E noi a guardare, con compiaciuta condiscendenza e con qualche turbamento, mentre celebriamo la nostra storia che ancora stiamo scrivendo.
E se invece di festeggiare il Risorgimento come fosse la sagra delle ciliegie o il miracolo di San Gennaro, ce lo riprendessimo? Se cercassimo di capire dove il filo si è spezzato e provassimo a riannodarlo?
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