# Mafia e terrorismo: questione di credibilità
Ogni volta che episodi di terrorismo o malavita organizzata
entrano nelle cronache si sente riaffermare con decisione che lo Stato agirà
con fermezza.
Certo sono state promulgate leggi speciali e le forze dell’ordine
operano in modo incessante, con successi e sacrifici, per lottare contro questi
due fenomeni.
Ma la fermezza senza credibilità rischia di essere retorica
o, peggio, ipocrisia. E la credibilità, a sua
volta, si fonda sulla coerenza.
La leadership politica dovrebbe realizzare il collante fra
l’ordinamento giuridico e la società.
Ma se osserviamo gli atti istituzionali nei confronti di
queste attività criminose, di matrici differenti ma ormai endemicamente
radicate nel nostro Paese, l’impressione è diversa. Come
se la politica si muovesse con circospezione, in una sottile intercapedine, lo
spiraglio che rimane fra lo stipite e l’anta.
Quando si tratta di malavita
organizzata, colpisce l'enfasi con cui se ne celebrano le vittime che, sia chiaro, meritano tutto il nostro rispetto. Un’enfasi che va ben aldilà della
retorica istituzionale, riservata agli eroi di una guerra a un nemico della
Patria. Un formalismo quasi religioso, dettato da un presunto bisogno di riaffermare
l’esistenza e la compattezza stessa dello Stato. Ma anche un rituale, dietro
cui l‘azione di governo perde i suoi contorni.
Si scoprono lapidi, si intitolano aeroporti e scuole alle
vittime di questa presunta guerra. Si mettono i cittadini in prima linea:
studenti di “scuole antimafia”, fiaccolate di protesta. Si mettono in campo
scrittori e sportivi. Un’antimafia
sociale. Mi viene da pensare a quei genitori che alimentano nei figli i
sensi di colpa, per legittimare la propria autorità e nascondere i propri
limiti.
Un motivo dovrà pur esserci se a 66 anni dalla proclamazione
della Repubblica, malgrado prefetti, procure antimafia, nuclei investigativi
speciali, sacrifici e successi eclatanti, la malavita organizzata sembra sempre
più parte integrante del nostro tessuto economico e sociale. E non stiamo
parlando di criminalità ordinaria, confinata negli ambiti dell’illegalità, ma di
forze annidate nei meccanismi economici del Paese.
Pensiamo solo al numero di organizzazioni: Mafia,
Ndrangheta, Camorra Sacra Corona, per citare i nomi più noti; agli adepti diretti,
agli affiliati, ai complici; a coloro che in qualche modo vengono sfiorati dal
groviglio delle relative attività! Se accettiamo la teoria dei sei gradi di
separazione, chi non ha rapporti con un malavitoso in questo paese? E non può destare
meraviglia che non ne sia immune neppure il Vaticano, di cui il nostro Stato è
ossequioso portavoce, senza distinzione di schieramento. Ahimè, anche il
nostro mentore morale è infettato da dubbie
operazioni finanziarie e frequentazioni malavitose.
Viene ugualmente da chiedersi se sia giusto alimentare nella
coscienza civile il dubbio di un peccato originale da espiare collettivamente.
Il rigetto di una tara innominabile che mina l’integrità del Paese, alla
stregua dell’intolleranza razziale e religiosa o di un sentimento
antidemocratico.
Non è possibile e sarebbe aberrante!
Perché, se un vizio congenito esiste, non è nella coscienza
civile ma nelle radici di questo sistema politico che ha bisogno di specchiarsi
nella saldezza morale dei cittadini. Nel retaggio di antichi problemi che hanno
spaccato in due l’Italia fin dall’unificazione. Con l’ansia di ricomporre le
diverse anime lacerate dal conflitto e dalla guerra civile, la politica ha per
lo più governato senza una visione strategica, alla ricerca del consenso e
della mediazione. Ed ecco che la corruzione, il compromesso con i poteri forti
di varia natura sono stati la linfa che ha alimentato la politica repubblicana.
E tra questi poteri non si potevano escludere quelli malavitosi, vista la
radicazione nel territorio e nel tessuto sociale di quella parte del paese meno
toccato dal benessere industriale. Così, l’azione legittima dello Stato di
esigere il rispetto della legge comune si è trasformata in una faida per il
controllo del territorio, dai confini ambigui e con vittime inconsapevoli. Ecco
allora la necessità di glorificare eroi e vittime, di alimentare il sentimento
di una guerra santa, mentre l’ipocrisia rischia di annacquare la fermezza.
La melina di questi giorni in Parlamento sul ddl anti corruzione
è illuminante.
E allora, l’effetto vero di questa terapia di gruppo cui ci sottoponiamo in
modo più o meno consapevole, non è di farci
apparire un Paese irrimediabilmente compromesso?
Anche altrove hanno la loro malavita organizzata, narcos e “famiglie” di varie etnie, da contrastare. Anche altrove hanno i
loro caduti da onorare. Magari diventano soggetto letterario o cinematografico.
Ma si tratta pur sempre e solo di lotta dello Stato alla criminalità, non c’è Nazione
da compattare o leadership da riaffermare. E non mi pare che si organizzino
fiaccolate o partite di calcio dove gli spettatori scandiscono “ chi non salta un gangsta è”.
E alla fine, per tutti i mafiosi per antonomasia siamo solo
noi!
Il terrorismo è
un aspetto diverso ma altrettanto emblematico.
Qui siamo in effetti di fronte a una guerra contro un nemico
dichiarato dello stato e della società e non ci sono dubbi. Più odiosa ancora, perché
di guerra civile si tratta.
Ma viene da chiedersi come mai l’Italia sia l’unico Paese
democratico in cui persista il fenomeno del terrorismo politico, eversivo. E
non stiamo parlando né dell’ETA né dell’IRA che avevano motivazioni storiche e
politiche di ben altra rilevanza. Eppure queste organizzazioni sono state
contrastate con la spietata durezza che anche un nemico dello Stato democratico
merita. La Germania che pure sta ancora facendo i conti col suo passato
autoritario, non ha avuto esitazioni né pudori nello sradicare il terrorismo. É
possibile che nel nostro tollerante e sonnolento Paese qualcuno pensi che
gambizzare un dirigente industriale o uccidere un Professore possa rappresentare
una scintilla rivoluzionaria o una risposta politica? È così fragile la nostra
democrazia? O magari è solo l’esasperazione di una cultura che fa dei
compromessi in cui vive il Paese la sua ragione d’essere?
Va detto con chiarezza che, anche in questo caso, chi lavora
sul campo opera e si sacrifica senza esitazioni e con professionalità. Ma è nella
saldezza del binomio fermezza-credibilità che sta la chiave del successo. E
allora è come se il nostro Stato Repubblicano patisse un po’ la vergogna delle
sue radici autoritarie, del lungo percorso nella dittatura. Come se la ferita
della guerra civile che, fino alla caduta del muro, si è cercato di ricomporre, nel lungo bipolarismo latente,
avesse alimentato una timidezza nella coscienza civile. L’ansia di tenere
insieme tutto il gregge, senza distinzioni.
E allora i teorici della rivoluzione possono continuare a
pontificare, assassini conclamati pubblicano memorie, terroristi in pensione
rilasciano interviste televisive, magari a coloro che ne hanno condiviso le
matrici culturali e che ora sono stimatissimi giornalisti e opinionisti.
È con questo spirito che l’allora Ministro di Grazia e
Giustizia del governo D’Alema, Oliviero Diliberto - si quello di La Fornero al cimitero- ottenne il
rimpatrio della sovversiva Silvia Baraldini. Non una troppo dura ma, tant’è,
condannata a 43 anni negli USA e qui accolta con mazzi di fiori e gli arresti
domiciliari. Naturalmente ora è libera, grazie all’indulto voluto nel 2006 da
un ampio schieramento politico. Anzi, quattro comuni italiani l’hanno omaggiata
con la cittadinanza onoraria.
E poi c’è un certo sindacalismo che altrove è stato messo in
soffitta da tempo- beh in Orissa ci sono ancora i Maoisti, ma non vuol dire-
che qui ha barattato bassi salari e pace sociale per diventare interlocutore
privilegiato dei governi. Incapace di qualsiasi contributo culturale utile ad
accompagnare la trasformazione industriale del paese, ormai si arrocca su
principi non più difendibili, finendo per riproporre uno sterile scontro
ottocentesco fra sfruttati e sfruttatori.
Anche gli stranieri che strimpellano per strada e in
metropolitana sembrano aver capito: nelle loro playlist non manca mai “Bellaciao”.
Ma chi governa ha la responsabilità di
garantire l’integrità della nazione e il
rispetto delle leggi che rappresentano i valori condivisi. Senza ambiguità.
Io non condivido la politica di Israele, ma c’è una
guerra, giusta o sbagliata che sia, e i nemici che ne minacciano l’esistenza e
portano il terrore nelle loro strade li vanno a cercare e li trattano come tali,
senza compromessi.
Quando Bush ha dichiarato la guerra totale al terrorismo,
noi progressisti lo abbiamo trattato con disprezzo. Ma proprio un progressista,
Obama, l’ha portata al successo andando a stanare il ricercato Osama Bin Laden.
E non lo ha certo affidato al tribunale dell’Aja! Guantanamo, le renditions, ispirano
sentimenti di esecrazione, ma le immagini delle Torri gemelle o anche della
scuola di Brindisi che sentimenti suscitano? E che sentimenti ha suscitato in
chi la ferita del terrorismo l’ha subita, un Cesare Battisti libero e irridente?
Cesare Battisti che si gode la libertà in Brasile, dove scrive libri che,
prima o poi, verranno recensiti a
“Che tempo fa” o “Le invasioni barbariche”.
Noi invece mettiamo sotto processo gli agenti dei Servizi
che hanno partecipato alla cattura di Abu Omar.
E a proposito di leadership, fermezza e credibilità, quale
altro Stato avrebbe permesso che due suoi militari impegnati in una missione
internazionale venissero arrestati e giudicati da un’ altra giurisdizione?
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