In generale, il processo attraverso il quale i governi programmano di anno in anno la gestione finanziaria del loro Paese, viene denominato Budget. Perfino in Francia, dove il computer è detto “ordinateur”, probabilmente perché la parola ha una lontana origine francese. Normalmente il budget è poi tradotto in un’apposita legge finanziaria soggetta all’approvazione del rispettivo parlamento e poi vincolante. Negli USA, il processo è ancora più stringente perché non basta l’approvazione del budget ad autorizzare un eventuale incremento del debito pubblico. Questo è limitato a un tetto fissato dal congresso e come leggiamo in questi giorni, non è scontato che possa essere modificato, vincolando la discrezionalità dell’esecutivo.
Non è necessario essere degli addetti ai lavori per comprendere il significato di questa parola, soprattutto se si è fra coloro che devono stare attenti alle spese se vogliono arrivare alla fine del mese. Perché è di questo che in fondo si tratta. Elaborare il Budget di una famiglia, ma anche di un’azienda o di uno stato, vuol dire fare il conto delle entrate previste e su di esso programmare le spese. Certo ci possono essere degli imprevisti o magari dei desideri difficili da soffocare. In quel caso, avendone la possibilità, si può far ricorso alle carte di credito, ai prestiti personali, ai mutui. Ma anche in quel caso, la successiva programmazione dovrà tener conto degli interessi e delle rate di rimborso dei debiti.
Ma se non siamo stati oculati a sufficienza o non così determinati nel contenere le spese voluttuarie? Beh, in quel caso dovremo ricorrere a qualche escamotage, del tipo impegnare i gioielli della moglie, mettere in conto la spesa al fruttivendolo, emettere assegni postdatati. Se siamo imprenditori, non pagare i fornitori, non versare l’IVA e i contributi, cose del genere. Però si può ancora scendere la scala dell’etica, secondo la propria spregiudicatezza e la relativa disperazione.
In Italia, in linea con la cultura dominante e con la storia politica del Paese, il budget è indicato come “ Manovra finanziaria”. Non a caso, perché la parola “manovra” esprime il significato di un atto tattico volto a un obiettivo definito, della reazione a una contingenza, se non peggio, di furbesche azioni per ottenere uno scopo.
E, a ben vedere, di questo si tratta. Fatta la previsione delle entrate non si fa alcuno sforzo per contenere le spese o per aumentare in modo fisiologico le entrate stesse, stimolando opportunamente l’economia privata o impiegando i fondi pubblici a fini produttivi. Anzi, nell’affanno delle prevedibili emergenze si utilizza il trito repertorio del tappabuchi. Esattamente quello che nel privato fanno cittadini e imprenditori poco oculati o poco onesti. Con il vantaggio che non ci saranno né denunce né istanze di fallimento, anzi vessazioni fiscali imposte con la protervia e la coercizione.
E allora quello che deve fare riflettere, aldilà delle conseguenze economiche di questa e delle altre “manovre”, è proprio il senso di improvvisazione che la sottende, la limitatezza dell’orizzonte delle scelte di politica economica. E non è certo una caratteristica di questo governo. La storia economica del dopoguerra è segnata da questa incapacità di dare un indirizzo, di esprimere una visione tale da accompagnare l’evoluzione e i mutamenti della società e dell’economia, dare delle risposte strutturali. Dal boom economico, innescato da un liberalismo miope e soffocato con altrettanta faciloneria per finalità politiche contingenti, l’intervento dello stato, anche attraverso il capitalismo pubblico, non ha perseguito una linea strategica, ma il consenso populista. Così il Paese, stretto in un impossibile bipolarismo, ha preferito tirare avanti sulle linee di un mai morto corporativismo che ha accontentato tutti. E i nodi sono tutti rimasti li, la carenza dei servizi e delle infrastrutture, la politica agricola, lo sviluppo del meridione, il mercato del lavoro. In compenso abbiamo avuto le pensioni baby, quelle d’oro e quelle anticipate, gli ammortizzatori sociali, i contratti di programma e i posti di lavoro dove non c’è il lavoro, il servizio sanitario nazionale. Il tutto tenuto insieme da una corruzione dilagante e inestirpabile.
É forse per questo che oggi, malgrado la situazione sempre più grave e sempre più nebulosa, a parte qualche sciopero dei trasporti, gli unici che fanno sentire le loro proteste sono i No TAV? C’è di che riflettere.
Ma allora, per avere una classe politica capace di una visione di lungo periodo, di dare risposte adeguate ai problemi di una società in rapida evoluzione, di affrontare le sfide dell’economia globalizzata, cosa dovremo aspettare? Forse che tutti coloro che hanno accettato il precariato con la promessa di un posto fisso aprano gli occhi? Che coloro che vivono dei privilegi garantiti da politiche miopi spariscano dal mercato? Che i giovani che sperano in un lavoro rinuncino a sperare?
E sarebbe bene ricordare uno dei tanti capitoli della nostra grottesca storia economica: lo SME. L’entrata nello SME fu, come al solito, una scelta politica non accompagnata da un coerente sistema di riforme. Il risultato è noto. Dopo aver vissuto al di sopra dei nostri mezzi, malgrado le generose bande di oscillazione concesse a Lira e Peseta (!) nel 1992 si dovette pesantemente svalutare (e anche riguardare gli organigrammi dell’epoca non farebbe male).
Ma lo SME era anche la prova generale per la moneta unica. Anche in questo caso, giustamente, abbiamo aderito, accettando un rapporto di cambio discutibile e senza di nuovo fare nulla per consentire alla nostra economia di tenere il passo. Senza la valvola di sfogo delle svalutazioni, le inefficienze si sono scaricate sul mercato interno, come abbiamo sperimentato sulla nostra pelle.
Andando in vacanza in Grecia si sentiva spesso dire ”Greci, Italiani, una faccia stessa razza”…..